“La giornata di lavoro di uno scultore e’ troppo breve. Dal sole al sole e’ multo poco. Io lavoro da domenica a domenica e nella notte dormo al massimo tre ore perche’, quando viene buio, disegno. Il basalto, la pietra vulcanica di fiume con la quale scolpisco, e’ piu’ duro del metallo. La scultura e’ molto lenta e la mano non accompagna la mente che vola”. Questa la visione semplice e disperata di João Bez Batti, uno dei piu’ grandi artisti del Brasile contemporaneo, figlio di un italiano giunto in Santa Catarina e nel Rio Grande do Sul ai primi del novecento da Igne, una frazione di Longarone, in Veneto, un paese di montagna che venne distrutto nel 1963 dal terribile disastro della diga del Vajont.
“Mio padre si chiamava Giovanni. Giunse dall’ Italia a Urussanga in Santa Catarina con tre fratelli e tre sorelle: aveva 14 anni. I Bez Batti colonizzarono tutta la regione. Il cognome di tutti a Igne era Bez. L’anagrafe di la’, per differenziarli, aggiungeva una parola legata al lavoro che uno faceva. Chi diceva che faceva fonti otteneva il cognome Bez Fontana, chi tagliava pietre veniva chiamato Bez Batti, dal “battere” la roccia. Molti cognomi italiani sono cosi’: Raimundo Faoro per esempio deriva dal fare l’oro”. Suo nonno Luigi e sua nonna, Domenica Mazzucco, restarono fermi per sempre ad Urussanga, ma suo padre, irrequieto, per tutta la sua esistenza viaggio’ al servizio di un grande politico del Rio Grande do Sul, Ildo Meneghetti, che e‘ stato anche sindaco di Porto Alegre e governatore. “Io non ho mai conosciuto i miei nonni e i miei zii perche’ mio padre non si fermava mai: lavorava con una macchina che apriva strade, e a quell’epoca in tutto il Brasile ce ne era un grande bisogno”. Giovanni si sposo’ con un’oriunda mezza tedesca e mezza del Lussemburgo, ed ebbe sei figli. Il padre parlava italiano e la madre tedesco: c’era una grande confusione. Risultato: i figli non appresero nessuna lingua a parte il portoghese.
João Bez Batti nacque a Venâncio Aires, nel Rio Grande do Sul, l’11 novembre del 1940, e spiega che la sua grande passione per la pietra risale a quando era poco piu’ che un infante. “Quando avevo 4 anni mio padre trasloco’ da Venancio Aires all’interno di General Camara. La casa era a trenta metri dal fiume Taquari, uno dei corsi d’acqua principali della zona. Non c’era un posto cosi’ povero culturalmente in tutto il Brasile. Mio padre e’ andato a mettersi alla fine del mondo. Non c’era chiesa, non c’era salone delle feste, non c’era un negozio: non c’era nulla. La mia salvezza fu un’immensa spiaggia sul fiume, di pietre rotonde di basalto, lapidate dall’acqua. Fuggivo da mia madre e raccoglievo le pietre che nascondevo nel mezzo del bosco. Nessuno era al corrente che io mettevo inseme quel mio piccolo tesoro, ma io sapevo che stavo facendo una cosa differente.”
Il padre aveva come “agregados” (dipendenti che facevano quasi parte della famiglia) una gruppo di neri africani che lavoravano nelle sue terre. Alla domenica i figli di Geronimo facevano piccoli lavori di artigianato manuale: creavano delle miniature di atrezzi agricoli, dall’aratro alla zappa, dal carretto alla falce. “Quelle cose mi lasciavano incantato e affascinato – ricorda lo scultore – Mio padre poi mi porto’ sei libri da una rivendita di libri usati di Porto Alegre. Libri di storia, tutti illustrati con disegni a punta di penna. Un incanto. Non avevo ancora cinque anni, ma dalla mia memoria non si cancellera’ mai che mia madre disegno’ un giorno, per me, un papero. Ero perseguitato da quel disegno. E’ stato un seme che le ha posto in me”.
Suo padre lo alfebetizzo’ in casa. A sei anni sapeva gia’ leggere e fare i conti. Andando a scuola scopri’ che il figlio di un vicino disegnava i vaporetti che passavano per il rio Taquari sul quale la navigazione a quell’epoca era intensa. “Era una cosa meravigliosa. Io pagavo quel ragazzo perche’ mi disegnasse una barca che vedevo passare, per poi copiarla. La disegnavo ai margini del quaderno di scuola. La mia e’ stata un’infanzia molto dura, pero’ vivevo in mezzo a una natura molto ricca. Trascorrevo il giorno tagliando l’erba e zappando: mio padre era moto severo. Un inferno. Ma sono stato messo in salvo dalle pietre del fiume, dal disegno di mia madre, dagli artigiani neri e da quel bambino che disegnava vaporetti. Sono stato contagiato, fertilizzato da quelle pietre di basalto”.
A 12 anni lo collocarono su una nave a vapore diretta a Porto Alegre. Era una sofisticata imbarcazione inglese che aveva a bordo anche una casa da gioco e un ristorante. “Per la prima volta mi misero ai piedi delle scarpe. Mi imbarcai alle sei di sera e alle tre del mattino c’era un cugino di mia madre ad aspettarmi sul molo della grande citta’. Io stavo dormendo e quando mi svegliarono pensavo che stavo ancora sognando. Non avevo mai visto la luce elettrica. Poi prendemmo il tram e ancora oggi mi ricordo il suo rumore. Non credevo ai miei occhi. Divenni interno del collegio Don Bosco: sono stato il maggiore villico che sia mai giunto a Porto Alegre. Oggi parlano molto di bulling, ma io allora ho sofferto una feroce discriminazione, indifeso in quel collegio in cui trascorsi quattro anni. Quando sono arrivato per prima cosa altri bambini mi hanno invitato a giocare al pallone. Lo sapevo fare? Risposi di si perche’ quando ammazzavano il maiale giocavo a prendere a calci la sua vescica. Ma non sapevo neppure che esisteva il portiere, figuriamoci le regole del calcio. La prima palla che venne nella mia direzione la presi con le mani. E tutti a ridicolizzarmi. Ma da dove vieni? Risposi che venivo dal campo e tutti ridevano. Tutti i ragazzi problematici stavano dentro a quel collegio. Restavo tutto l’anno la’ e solo a Natale tornavo a casa”.
Un sacerdote salesiano, Padre Geraldo, dava classe il giovedi’ di disegno. Ma era per i ragazzi piu’ grandi. Bez Batti andava tutte le settimane a spiare. “L’arte oggi e’ finita perche’ non c’e’ nessuno che disegna piu’. Il disegno e’ favoloso. Cio’ che mi stanca non e’ battere nella pietra ma pensare tutta la notte per trovare nel disegno una nuova scultura. Ho lavorato poi come operaio in vari posti ma un giorno ho visto la placca dell’Istituto Tecnico di Disegno con sotto la frase: chi scrive disegna! Sembrava fatta per me e mi iscrissi. Ma copiavamo dalle riviste, mentre il disegno deve essere fatto dal vivo, con la risoluzione di luce e ombra. Un giorno finalmente mi portarono da Vasco Prado, che era uno dei maggiori scultori del Rio Grande do Sul, e quando sono entrato la’ ho visto un mondo differente. Ho disegnato con lui durante 8 anni. Tutto quello che avevo imparato prima era inutile: con Vasco ho studiato modello vivo e natura morta”.
Bez Batti si accorse che come postino poteva lavorare anche solo due ore al giorno. Riusci’ ad entrare alle poste per concorso e vi rimase per 14 anni. “Facevo il ‘salvafilo’ che andava sui pali dopo un temporale a rimettere a posto i fili del telegrafo. Ho imparato anche l’alfabeto Morse e leggevo nelle intermittenze della lampada i telegrammi che giungevano a Porto Alegre. Poi divenni adetto all’addestramento la sera: avevo tutto il giorno libero. Ma con Vasco ho imparato che la scultura e’ una professione nella quale non si puo’ avere nulla in parallelo. Ho fatto la mia prima esposizione nella sua casa e mi sono reso subito conto che la scultura dava da vivere. Allora chiesi immediatamente le dimissioni dalle poste”.
Si e’ sposato nel 1967 con una discendente tedesca, Maria Schirley, e con la quale si e’ installato nella zona di Bento Gonçalves e dove oggi vive in una bella casa di legno, nella foresta, su una strada sterrata a fianco di una arteria famosa in tutta la Serra Gaucha, dal nome che sembra avere a che vedere col suo destino: Caminhos de Pedra. Hanno due figli: Diego e Melissa. “Sono molto grato a mia moglie perche’ io solo faccio arte, io bevo, mangio, dormo, vivo di arte. E lei invece fa tutto il resto del lavoro di strada, va in banca, al supermercato, tiene il contatto con i clienti. E’ um miracolo vivere dove vivo ora, nella selva, nella colonia. Non dipendo piu’ dalle gallerie. Il 90% delle mie opere vanno tutte a San Paolo che ho visitato la prima volta solo nel 1980. Vivo qui da 7 anni. Il mio trasloco e’ molto caro perche’ porto con me tutte le mie pietre: dozzine di camion di macigni. Ma questo e’ l’ultimo trasloco della mia vita: per i prossimi 100 anni sono abbastanza fornito di pietre”.
In quella casa bianca ora Bez Batti sta vivendo una seconda giovinezza. “Mi sento molto bene. Sono un guri’ (ragazzino nel dialetto brasiliano del Rio Grande do Sul) di 75 anni. La mia vita e’ legata al fiume Taquari e al Rio das Antas: una volta alla settimana vado a pescare e vado in cerca di pietre da scolpire. Quelle pietre mi orientano, mi parlano, e anche quando sono sfinito torno curato. Io penso che ogni artista ha un punto di partenza: per me sono le pietre. Mio figlio Diego e’ geniale per il suo talento: io non ho il 10 per cento della sua vocazione. A 33 anni e’ uno dei migliori disegnatori che esistano in Brasile. Ma si limita a fare tatuaggi con un giapponese nella Rua Augusta a San Paolo. Un po’ lo capisco. Io ho aspettato 12 anni per mettermi il primo paio di scarpe, 50 anni per incominciare a guadagnare qualcosa con il mio lavoro. Adesso i giovani, in questo mondo accellerato, non vogliono giustamente piu’ aspettare. Il mondo che comanda ormai e’ quello delle cifre e dei soldi. Ma mi spiace. Di tutte le decadenze che ha vissuto il mondo nei secoli quella di oggi e’ secondo me la peggiore”.
Bez Batti mi mostra un volto ottenuto dal basalto nero. “Era la pietra dei faraoni egiziani: la stele trilingue di Rosetta, quella di Napoleone, e’ stata scritta su un basalto nero vulcanico. E’ incredibile come abbiano potuto scalfire tanto elegantemente una roccia cosi’ dura. Ma questo non e’ niente in confronto alle sculture e alla fantasia che si trovano in natura. Non c’e’ dubbio: l’italiano Victor Brecheret e’ stato il piu’ bravo scultore del Brasile, ma e’ l’acqua la piu’ grande scultrice del mondo”.