04.09.2015

Alfredo Albieri

São Sebastião do Paraíso (MG) 4/9/2015

Lui e’ corrispondente consolare italiano a São Sebastião do Paraíso, la capitale del buon caffé sulle montagne di Minas Gerais, ai confini con lo stato di San Paolo. Ha vissuto migliaia di storie nel corso di una vita che dura da 87 anni, dalla sua nascita a Genova, l’11 ottobre 1927, agli anni avventurosi di Tobruk, in Libia, e alla sua venuta in Brasile dove ha incominciato a fare una miriade di lavori, dal confezionare pillole farmaceutiche al panettiere mattiniero, dal “garimpeiro” in una miniera d’oro al venditore di carne lungo la linea di un treno. Per approdare infine nell’oasi felice di São Sebastião ad insegnare ai caffecoltori locali come si coltiva questa “arabica” da mille e una notte, che oggi e’ vanto della produzione agricola brasiliana.

“Quelli di Genova hanno fama di essere molto intelligenti ma testardi – dice Alfredo Albieri, sorseggiando la sua dose diaria di cachaça in un bar di São Sebastião – Io ne sono la prova tangibile: sono arrivato fin qui, con mia moglie e con i miei cinque figli, con la risolutezza degli eredi di Cristoforo Colombo. Quando ero alla fame a San Paolo ho minacciato anche di buttarmi da un ponte. Ma non lo dicevo sul serio: amo troppo la vita!”. Alfredo si ricorda del grande porto natio dal quale sono partiti quasi tutti gli emigranti italiani per “fare l’America”, la citta’ in cui si parla il dialetto che piu’ assomiglia, nell’accento, al portoghese brasiliano. Ma a Genova rimase solo fino a quando aveva sette anni.

Suo fratello maggiore, Rocco, era gia’ espatriato da tempo a Tobruk, una cittadina della Libia che era stata annessa come colonia dall’Italia nel 1912. La’ aveva messo su un magazzino che forniva alimenti alla marina e all’aviazione italiane che avevano a Tubruq (oggi si chiama cosi’) delle basi. Era diventato ricco e nel 1934 aveva chiamato il resto della famiglia. “Siamo arrivati la’ con la nave Conte Verde e mio fratello diede lavoro a tutti: a mio fratello del mezzo, Aleardo, ha dato una macelleria, a mia sorella Gina una cartoleria, a mio padre e mia madre un ristorante. Gli affari andavano bene, ma nel 1940 e’ cominciata la Seconda Guerra Mondiale. Tobruk, quasi ai confini con l’Egitto, e’ in una posizione rischiosa. Allora Mussolini ha preso tutti i bambini dai 7 ai 14 anni e li ha riportati in Italia, al sicuro, nelle “colonie” di Rimini, Riccione, Cattolica, sul mare Adriatico di quella Romagna dove era nato. Siamo rimasti in quei grandi hotel sequestrati dal governo italiano sino al 1942: ci davano tutto, studio, mangiare, vestiti, protezione. Devo a quegli anni tutto quello che sono: ben piu’ di un perito agronomo”.

Negli ultimi anni della guerra Alfredino raggiunse i genitori a Barga, in Garfagnana (Lucca), dove una sorella si era sposata con un nativo toscano. Era nel bel mezzo della Linea Gotica, il fronte appenninico dove gli alleati si stavano scontrando con la resistenza tedesca. Era il luogo dove hanno combattuto i “pracinhas” dell’esercito brasiliano inviati da Getulio Vargas in Italia. ”Era molto pericoloso. Un giorno mia sorella si era avventurata fuori Barga a cercare del latte per alimentare il figliolo appena nato. L’hanno fermata i partigiani e volevano ammazzarla. Dicevano che era una spia dei tedeschi. Ma grazie al cielo, un comandante brasiliano e’ intervenuto dicendo che non era vero, mentendo che l’aveva vista prendere il latte gia’ da parecchi giorni. Gina si salvo’ e da allora i brasiliani mi divennero molto simpatici. Siamo restati in quel paesino delle Alpi Apuane, dove si estrae il marmo piu’ bianco del pianeta, sino al 1950”.

Un suo amico di Barga aveva uno zio in Brasile, a Bom Sucesso, in Minas Gerais, e un giorno gli disse che quel suo parente sarebbe stato contento di riceverli la’. L’Italia passava un momento difficile, semidistrutta com’era da cinque anni di conflitto. Allora Alfredo, che nel 1951 non aveva ancora 24 anni, decise di partire. “Quando arrivai a Rio de Janeiro mi scontrai subito con un poliziotto di frontiera che voleva mettere la scritta Albiere, come si pronuncia qui, al posto di Albieri. Ma io, da buon genovese, non l’ho lasciato fare. Ad ogni modo mi ha tirato via due nomi: mi chiamavo infatti Alfredo Umberto Natale Albieri. Un doganiere ha aperto la mia valigia e ha subito trovato le scarpine con i tacchetti da calcio. Mi ha chiesto se ero un giocatore professionista. Gli ho risposto di no, che ero solo un dilettante, anche se giocavo bene. Poi mi ha domandato se ero un politico. No, gli dissi che ero venuto solo per lavorare. Allora, con mia grande sorpresa, ha decretato: tu in Brasile, se non sei un giocatore o un politico, morirai di fame! E quasi ci azzecca con la sua maledetta previsione”. Impiegarono cinque giorni di viaggio ad arrivare in treno a Bom Sucesso. Lui si mise subito a fare quello che sapeva: diplomato in agronomia andava in giro a consigliare i fazendeiros su come fare per avere migliori raccolti di caffe’. Ma nessuno gli dava retta. E allora alzo’ i tacchi per raggiungere San Paolo in cerca di lavoro.

“Ben presto ero senza un soldo e senza un impiego. Disperato, entrai nella chiesa del Sacro Cuore di Gesu’, vicino all’Avenida Duque de Caxias, e chiesi a un sacerdote di benedirmi. Era un tedesco, che mi rispose che lui non benediva nessuno e che quelle erano cose da terreiro di candomble’. E io allora, di nuovo da buon genovese, gli ho promesso che non sarei uscito da quella chiesa fino a quando lui non mi avesse benedetto. Alla fine l’ho spuntata, e l’indomani, di buon’ora, ho attraversato a piedi tutta la citta’ per raggingere la fabbrica Lorenzetti nell’Avenida do Estado. Era molto lontano. Non avevo neppure 50 centesimi per il tram. C’era una folla fuori dallo stabilimento. Chiesero se fra noi c’era un tornitore. Non c’era nessuno. Allora ho tirato su la mano. Un capomastro mi ha detto di fargli un pezzo al tornio, ma gli ho subito confessato che non avevo mai visto una macchina del genere. La porta e’ li’ e puoi andare, fu la sua immediata e comprensibile replica. Ma, con la genovesita’ di sempre, mi rifiutai di andarmene: che se non mi avesse dato un lavoro mi ammazzavo, mi buttavo giu’ da un ponte, intanto non avevo soldi, ero solo, e non avrei perso nulla. Un altro caposezione che aveva seguito la scena gli propose di darmi una chance. In un angolo c’era una macchina per fare le viti che non funzionava da anni: se riesci ad aggiustarla avrai un lavoro. Ogni operaio che passava di li’ mi dava un consiglio: gira quella chiave, tendi quella cinghia, cambia quel fusibile… Alla fine dalla macchina usci’ una vite. Ma e’ tutta storta, obietto’ il capomastro. Si’, ma e’ una vite, gli ho risposto. Cosi’ sono stato assunto”.

Qualche mese dopo Alfredo passo’ alla “Organon do Brasil”, la ditta farmaceutica di un ebreo nella quale inizio’ confezionando pillole, ma dove ben presto si trasformo’ nell’apprezzato factotum del proprietario. “Guadagnavo benissimo, piu’ di 3000 cruzeiros al mese, che nel 1954 erano tanti soldi. Immagina che prendevo un aereo DC3 da San Paolo a Lavras per andare a trovare la mia fidanzata Elzi, a Bom Sucesso. Un passaggio di andata e ritorno costava ben 330 cruzeiros. Ma un giorno chiesi al padrone se mi aiutava a comprare una casa nei quartieri centrali di San Paolo. Lui rispose di no. Allora ho chiesto la liquidazione e me ne sono andato”. Torno’ a Bom Sucesso dove nel 1956 si sposo’ con Elzi, ancora oggi sua fedele compagna. “Abbiamo comprato un negozietto nella foresta a 18 Km da Bom Sucesso, di fianco alla strada ferrata. La’ viveva Ivan Junquera, un proprietario terriero molto famoso a quel tempo in Minas. Lavorava solo con il latte e quando nascevano vitellini maschi li faceva uccidere: ne ricavava la pelle che, quando le mucche la annusavano, producevano piu’ latte. Lo convinsi a darmi la carne che lui buttava via di quei manzi e mettevo un cartello lungo la ferrovia: “Oggi c’e’ carne squisita!”. I treni si fermavano e scendevano a comprare il macchinista, il capotreno, il bigliettario, e persino dei passeggeri. Ho guadagnato tanti soldi che mi sono comprato una casa in paese”.

Sua moglie rimase presto incinta. Gli disse che era piu’ prudente aspettare il bambino a Bom Sucesso, caso mai le capitasse qualcosa…. Alfredo resto’ solo nel negozietto, isolato in mezzo alla campagna. Ma un giorno arrivo’ un treno fischiando all’impazzata. “Sembrava una scena da far west. Alfredo e’ nato tuo figlio, mi grido’ il macchinista. Ho preso di corsa il cavallo e mi sono precipitato al galoppo attraverso la foresta. Alla fine avevo il sedere tutto pieno di vesciche d’acqua grosse cosi’. Ma ero al settimo cielo”. Poi fu infermiere in una miniera d’oro, fabbricante di salsicce, socio di un altro italiano, Walter Gianni, in un nuovo panificio. Facevano i panetti al mattino presto, come in Italia, mentre le altre panetterie li preparavano solo nel pomeriggio: fu un successo. Ma il francese che aveva quella miniera d’oro, Roger Martin, che gli voleva molto bene, aveva comprato le acque di São Lourenço, famose terme nel sud di Minas, e lo chiamo’ di nuovo ad aiutarlo. “Pero’ a me piaceva di piu’ la minerazione vera e propria. Avevo visto che voleva impiantare una miniera a cielo aperto a 30 chilometri da São Sebastião do Paraíso e gli ho chiesto di andare. Lui mi invio’ a fare un addestramento a San Paolo e poi mi chiese se volevo stare a Passos o a São Sebastião, tutto spesato da lui. Gli ho detto che preferivo il Paradiso. E cosi’ sono approdato in questo meraviglioso paese. Ho aperto una ditta di trasporti, la nazionalmente conosciuta “Regina”. Alla fine mi sono pensionato ed eccomi qui”.

Con Albieri andiamo a conoscere la fantastica Cooparaiso (Cooperativa Regionale dei Caffecoltori di São Sebastião do Paraíso), affollata di addetti a lavori francesi, i maggiori clienti dell’entita’ con gli italiani della Illy. Abbiamo visto pile di migliaia di sacchi di caffe’, macchine per separare i chicchi di vario diametro, un assaggiatore degli aromi di decine di qualita’ di caffe’ raccolte in bicchierini su una tavola girevole,… Alfredo e’ soddisfatto di avere collaborato come agronomo a questo attuale boom “paraisense”.

“Nel 1974 sono tornato in Italia per la prima volta – cosi’ Alfredo Albieri conclude i suoi milioni di racconti – Il mio padrone di allora, un tedesco, mi ha offerto il passaggio aereo con mia moglie e 1000 dollari da spendere. Io avevo tre desideri: trovare la tomba dei miei genitori, rintracciare mia nipote Anna Albieri, a cui volevo molto bene, e mangiare formaggio gorgonzola e prosciutto crudo. Arrivati a Barga andammo subito al cimitero. Abbiamo trovato la tomba di mio padre con in cima una rosa rossa. C’era un addetto al camposanto che ci guardava da lontano. Gli ho dato 50 dollari perche’ mantenesse bene quella sepoltura: non sapevo quando sarei ritornato. Tu sei Alfredo? Non mi riconosci? mi disse. Sono il tuo compagno di banco delle scuole medie. Lo sapevo che un giorno saresti venuto: ho conservato questa tomba per 25 anni perche’ dopo un decennio in genere le distruggono se non viene nessuno. Quella rosa ce la metto io tutte le settimane. Abbiamo pianto abbracciati assieme. Poi vado al “Giornale di Barga” a fare l’abbonamento. Ricevo ancora adesso in Brasile quella pubblicazione. Dico il mio cognome e quel giornalista mi guarda stupito: ma io sono stato fidanzato con un’Albieri, si chiama Anna e fa la medica biochimica. Come il destino sa preparare le cose!”

“Ma non e’ finita qui – e se la ride all’ombra dell’inseparabile coppola che gli copre la testa – Siamo saliti sul treno a Lucca per andare a Barcellona a riprendere l’aereo per tornare in Brasile. Quelli erano gli anni di piombo in Italia, con il terrorismo, le bombe, le Brigate Rosse. Bloccarono il convoglio una notte intera per paura di un attentato. Ma sai dove? Nella mia Genova. Era l’11 ottobre, il giorno del mio compleanno, e io sono sceso a comprare gorgonzola, prosciutto crudo, una torta e dello champagne. Non ho mai fatto un brindisi cosi’ commosso con mia moglie come quella sera, davanti alla Lanterna, l’antico faro che e’ il simbolo di Zena (Genova in dialetto): la citta’ piu’ bella del mondo”.