Ci ha ricevuti a mezzogiorno nel giardino di una casetta antica di Betim in cui, con dei maccheroncini al sugo cucinati da lui, accoglie a pranzo decine di impiegati dei suoi studi fotografici, sparsi qui e la’ nella citta’ della Fiat alle porte di Belo Horizonte. Umberto Cerri non dimostra affatto i suoi 81 anni. Nell’intervista parla volutamente in portoghese, anche se conosce a mena dito il toscano, il dialetto piu’ puro della penisola che e’ diventato dai tempi di Dante la lingua italiana per antonomasia. Ma lo fa per polemica, confermando un secolare proverbio che riguarda le sue origini di Pisa: “meglio un morto in casa che un pisano all’uscio”. Lui fa la pasta ma non la mangia: e’ per questo che deve conservarsi tanto bene, con un corpo atletico e con quasi nessun rigonfiamento di grasso sulla pancia. Ed offre ai suoi commensali, come ogni giorno da anni, panettone italiano per dolce.
“Sono nato all’ombra della torre di Pisa il 28 settembre 1933. La mia gioventu’ e’ stata piuttosto triste: era l’epoca dura della seconda guerra mondiale. Non abbiamo avuto quello che oggi hanno tutti i ragazzi. Altro che internet! A casa mia non c’era neppure il telefono. La guerra mi ha lasciato molti traumi. Mi ricordo del primo bombardamento di Pisa. Era il 31 agosto 1943. Gli americani hanno bersagliato la stazione centrale dei treni. Ci sono stati centinaia di morti. Siamo fuggiti subito: non mi scordero’ mai quell’immagine di mio fratello maggiore che mi portava via da Pisa in fiamme sulla canna della bicicletta”. La famiglia allo sbando vago’ per tutta l’Italia centro-settentrionale incalzata dagli alleati che risalivano la penisola, mentre i tedeschi si ritiravano lasciando terra bruciata. Il primogênito di sua madre, Ezelina, avuto da un primo matrimonio, era disperso. Era rimasto isolato nel sud con il suo plotone anti-paracadutista, e l’8 settembre 1943 l’Italia aveva all’improvviso firmato l’armistizio con gli alleati lasciando migliaia di militari abbandonati a se’ stessi. La mamma di Umberto era disperata. Tento’ persino di contattare il Vaticano per avere qualche notizia. Ma nessuno sapeva nulla di quella brigata fantasma, tagliata fuori dal resto dell’Italia dallo sbarco alleato in Sicilia. Umbertino non riusciva a studiare: passando da un citta’ all’altra, inseguito dai bombardamenti, aveva dovuto interrompere per ben due volte le scuole elementari.
“Fuggendo ancora dal fronte, con mio padre e mia madre arrivammo addirittura a Milano. Ogni notte suonavano le sirene. C’era gente che viveva fissa nei rifugi anti-aerei. Ho avuto la disgrazia di vedere, in Piazzale Loreto, Benito Mussolini ammazzato, appeso per i piedi. Una pazzia! Avevo solo 12 anni, ma davanti a quella scena ho provato vergogna di essere italiano: un popolo che ha diffuso la civilta’ per tutto il mondo non puo’ fare questo. E’ uno dei motivi per cui adesso voglio essere piu’ brasiliano che italiano”. Sino alla fine del conflitto, il 25 aprile 1945, i Cerri non avevano avuto nessuna informazione sull’unico figlio andato a combattere. Era sparito nel nulla, e per questo Ezelina si stava ammalando di tristezza. “Quando ritornammo a Pisa, un mese dopo la pace, lo trovammo li’, davanti alla nostra casa sul Lungarno (la via che costeggia l’Arno, il fiume che passa anche per Firenze) che era mezza disastrata, quasi crollata. Mia madre non se lo aspettava, e per la gioia e l’emozione ha avuto un attacco di cuore e mori’. Era giovane: aveva poco piu’ di 50 anni. Li’ e’ finita. E’ finito tutto. Avevo 9 fratelli. Io ero il piu’ giovane. Ognuno ando’ da una parte, tutti sperduti per il mondo”.
Suo padre, Guido Cerri, era fotografo della casa reale italiana, e, per quegli anni del primo novecento, un ricercatore d’avanguardia. Comincio’ nella natia Milano come artista plastico, e poi porto’ il cinema muto a Genova e a Pisa. “Era diventato fotografo personale del re Vittorio Emanuele III. I Savoia avevano una tenuta vicino a Pisa, nella pineta di San Rossore, che ancora oggi e’ residenza dei presidenti della repubblica italiani. Per telegramma era sollecitato ad andare a fotografare la famiglia reale. Partiva da casa con la moto, soprattutto quando le principesse andavano in vacanza in Versilia. La fotografia e’ passata a me come eredita’. La scultura a mio fratello Gianfranco. Eravamo tutti artisti. Ma Guido, per me, non e’ stato un buon padre”.
Umberto inizio’ a lavorare con un coppia che aveva perso un figlio in guerra. Lo trattavano come il loro rampollo, lo pagavano bene, e chissa’ se non lo avrebbero lasciato come erede alla fine della loro vita. Ma c’era di mezzo la leva. “Ho tentato di tutto per non fare il servizio militare. Pero’ alla fine sono venuti a prendermi e mi hanno condotto all’Accademia Navale di Livorno per fare gli esami médici. Ero allergico alla guerra e a quel gelido trattamento. E allora mi sono ripromesso: non voglio fare la ferma militare, costi quello che costi. C’erano due cose che aborrivo: la tonaca del prete e l’uniforme del soldato. Era la fine del 1954 quando sono fuggito in Brasile con l’ultimissima emigrazione dall’Italia”.
Si imbarco’ sul transatlantico Provence nel suo viaggio finale per Rio de Janeiro, prima di essere smantellato. “Perche’ avevo scelto il Brasile? – se la ride indossando la sua maglietta nera con sopra il logo “bandiera italiana” del suo studio, e i blue jeans da teenager – Devi sapere che una volta avevo visto un film girato a Copacabana con tutte quelle ragazze bellissime. Sono rimasto a bocca aperta. Quella sera ho riflettuto molto: in Australia non ci sono donne, solo canguri, e in Germania non ci voglio andare assolutamente: fa troppo freddo. Cosi’ ho eletto il Brasile, che si e’ rivelato davvero fantastico. Ma l’inizio e’ stato molto penoso”.
Qualche anno prima era approdato sulla scena carioca suo fratello Gianfranco, scultore eccezionale. Ma quando Umberto arrivo’ nella capitale brasiliana trovo’ una situazione terribile. “Lui era un artista vero, completamente slegato dalla realta’. Se pensi che abbia passato fame hai detto giusto. Gianfranco viveva nel suo mondo e basta: si e’ sposato quattro o cinque volte, ma alla fine, nel 2009, e’ morto solitario. Mi sono reso conto molto presto che dovevo cavarmela da solo. C’era un gruppo di immigrati italiani che incontravo in un baretto di Copacabana vicino alla galleria Alaska. Mi aiutavano. Uno mi ha proposto di vendere mobili da ufficio. Ero tentato, ma io la fotografia ce l’ho nel sangue. Mi ricordo che un giorno mi portarono un giornale con l’annuncio che cercavano fotografi nell’interno di Rio. Mi hanno prestato dei soldi e cosi’ ci sono andato: ma la paga era di solo 8 cruzeiros, meno di un salario minimo. Restai tanto deluso che pensai di ritornare in Italia dove perlomeno avevo un lavoro fisso e guadagnavo ben di piu’. Ma ho stretto i denti e alla fine c’e’ l’ho fatta. Posso dire che qui in Brasile mi sono riscattato e mi sono recuperato come persona dagli orrori della guerra”.
Ando’ a San Paolo che gia’ allora era una citta’ difficilissima per la concorrenza di molti fotografi bravissimi. Alla fine gli capito’ di andare nella piu’ semplice Belo Horizonte e comincio’ a fare foto pubblicitarie, foto di elettrodomestici per l’Estado de Minas, foto per negozi e ditte.”Poi e’ apparsa l’opportunita’ della Fiat. Mi hanno chiamato una prima volta per scattare delle foto aeree del nuovo stabilimento. Ho affittato un teco-teco e ho mandato le foto a Torino. Sono piaciute. E’ incominciata cosi’. Quando nel 1973 ho traslocato da BH a Betim tutti mi prendevano per matto: cosa aprivo a fare un laboratório in questo villaggio periferico? Oggi abbiamo tre studi e forse ce ne vorrebbe un altro, in una citta’ emergente con piu’ di 400 mila abitanti. Stiamo fotografando la nuova fabbrica di Goiana, in Pernambuco, con una macchina che ha seguito tutti i lavori con un fotogramma ogni mezz’ora. Un prodigio”. Sono acqua passata tutte le preoccupazioni per tassi di inflazione all’84% mensile, per il piano Sarney, per quello Collor…”Ho attraversato incólume anni pazzi. Come fai ad amministrare un’impresa con svalutazioni del genere? Gli amori mi hanno sempre aiutato a distrarmi un po’. Mi sono sposato una prima volta che avevo 26 o 27 anni. Ero molto felice. Ho avuto quattro figli fantastici da una carioca stupenda. Ma la vita in due e’ sempre stata difficile a causa della mia professione che mi porta a girare continuamente. Io poi non sono un santo. Oggi sono al terzo matrimonio, con Cristina…, por em quanto (per adesso)!!”.
E sorride, mentre usciamo da un suo avveniristico laboratorio a guardare appeso al muro esterno un grande pannello del suo amato fratello Gianfranco. “Lo conoscevano tutti come Franco ed era incredibile: aveva qualcosa in piu’. Alla fine viveva in un atelier di Belo Horizonte dove faceva sculture favolose. Era il suo angolo. Questo di Betim e’ il mio. In pochi anni siamo passati dalle lastre di vetro da 24 cm con le quali facevo matrimoni a San Paolo a una macchina fotografica digitale di 60 megapixel, che e’ il fiore all’occhiello delle mie sale di posa. E’ stato un cambiamento difficile da assimilare. Quando avevo 8 anni mio padre mi metteva su un banchetto a mescolare il liquido rivelatore, perche’ quelle pesanti lastre di vetro di allora non potevano restare ferme un attimo. Avevo una paura dannata perche’ eravamo nella camera oscura e non si vedeva niente. Erano 10 minuti per ogni rivelazione, ma io contavo i secondi per liberarmi da quell’incubo”.
Umberto non nega di essersi trasformato in un mercenario della fotografia perche’ con una famiglia cosi’ grande aveva bisogno di soldi.”Artista non guadagna denaro. Reporter di guerra ha un’altra adrenalina, come il fotografo di nudi femminili. Tutti i tipi di fotografia sono difficili da fare professionalmente, ma mi incantano. Se dovessi nascere di nuovo sarei sempre fotografo. Io non mi vanto di nulla della mia vita di lavoro. Cio’ di cui mi inorgoglisco veramente, dall’alto dei miei ottant’anni, e’ di aver visto molti professionisti passare da noi, dalla nostra formazione, dalla nostra scuola. Ho aiutato molti di loro a montare un’impresa propria, e ho immesso nella fotografia persone che oggi mi riconoscono come maestro e che mi rispettano molto. E la cosa piu’ importante: sono tutti amici!”.