Tutto incomincio’ da Stipes, un paesino medievale a quasi 900 metri di altitudine, della provincia di Rieti, nel Lazio, dove sorgono le prime montagne dell’Appennino che vanno verso l’Abruzzo. E’ vicino al Monte Terminillo, la stazione invernale dove ora, i fine settimana, vanno a sciare i romani. Stipes e’ un nome latino, cosa molto rara nella toponomastica italiana. Ha due antichi significati. Uno si riferisce al palo verticale che si piantava per terra e a cui venivano legate le vittime delle torture e dei supplizi. Il ”patibolum” era il palo orizzontale che si aggiungeva allo ”stipes” a formare la croce per le esecuzioni capitali. Per cui Stipes e’ un nome inquietante che ricorderebbe la passione di Gesu’. Ma c’e’ un altro significato del termine, un po’ piu’ comune, che si pronuncia anche “stips”, come la cinquantina di abitanti di Stipes chiama in dialetto il proprio paese. Indica l’accumulo di notevoli quantita’ di monete d’oro date in dono alla divinita’. Un significato piu’ calzante alla saga della famiglia Picchioni, emigrati in Brasile proprio da Stipes, con niente in tasca, subito dopo la prima guerra mondiale.
” Oggi a Stipes c’e’ un sentiero da trekking intitolato, per renderlo piu’ appetitoso, alle castagne e ai tartufi. Ma quando mio nonno Ettore visse la’, prima di fare l’America, come si diceva allora, oltre alle castagne, ai tartufi neri e a qualche pecora, non c’era nulla. I miei antenati erano poverissimi”. A parlare e’ Celso Picchioni nel suo bellissimo ufficio di Belo Horizonte dove, con altri cinque fratelli, conduce la ditta di cambio e investimento dello stesso nome: storicamente la prima in assoluto ad offrire questi servizi finanziari in Brasile. “Stipes non e’ neppure adesso un comune a se’ stante, ma ai primi del XX secolo era molto peggio. Era un piccolo villaggio sperduto fra le montagne, che non aveva neppure una strada sterrata per raggiungere Rieti. Andare a Roma, che ora e’ a soli 80 chilometri di una comoda arteria, era un viaggio inimmaginabile. Dopo la prima guerra mondiale le condizioni di vita si erano fatte impossibili e allora mio nonno Ettore prese il coraggio a due mani e, con sua sorella, mio padre ed altri cugini, decise di tentare l’America: hanno lasciato la nonna a casa, come si usava fare allora fra gli emigranti italiani, e sono andati a piedi, con le valige di cartone e un salame, al porto di Civitavecchia, lontano piu’ di 200 km. Ignoravano se sarebbero andati nell’America de Nord o del Sud. Si imbarcarono sulla prima nave che hanno trovato, cosi’, alla ventura!”. La canzone “Merica Merica”, praticamente l’inno di quegli anni della grande immigrazione italiana negli stati a sud dell’Espirito Santo, proclama nelle parole di Angelo Giusti (poeta morto nel 1929 a Flores da Cunha, nel Rio Grande do Sul): “dall’Italia noi siamo partiti, siamo partiti col nostro onore, trentasei giorni di macchina a vapore, e in America siamo arriva’!” L’onore era l’unica cosa che avevano indosso, e di quella drammatica traversata i Picchioni non hanno mai voluto parlare. Ogni giorno, sulla scia della nave lanciata sull’oceano, lasciavano un po’ piu’ lontana l’amata terra dove erano nati, il ricordo della cascatella del Fosso dei Vignaletti, la chiesetta di San Tommaso, la festa delle “jatte”, le ragazze da marito, la caccia al cinghiale… sempre piu’ sfumato, sempre piu’ pallido, fino a scomparire del tutto. Non restava che guardare al futuro!
“Arrivarono a Santos e da li’ sono stati instradati a Sao Joaquim da Barra, vicino a Ribeirao Preto, a lavorare nelle piantagioni di caffe’. A mio padre, che si chiamava Ettore come il nonno, che poi assunse il nome portoghese di Heitor, quel lavoro non piaceva. Si sentiva, come era in realta’, alla stregua di uno schiavo di colore. Lavorare la terra era molto duro. La zia Lucrezia, sorella del nonno, raccontava piangendo come fu difficile lasciare tutto a Stipes e affrontare il Brasile. Ma qualche anno dopo venne la crisi del 1929, e molte fazendas del caffe’ andarono in rovina. I brasiliani non avevano la cultura del risparmio che avevano avuto da sempre gli italiani. I Junqueira, i proprietari della immensa fazenda Barao, si ritrovarono in braghe di tela e senza alcun denaro liquido. Gli italiani, che avevano da parte qualche soldo, anche se non molti, poterono approfittare del momento per comprare delle terre: da lavoratori, piu’ o meno stipendiati, trasformarsi in padroni. Ettore poteva cosi’ fare un notevole passo avanti nel suo desiderio di Fare l’America, di abbandonare per sempre la fame e gli stenti”. Ancora oggi quel sito comprato dai Junqueira presso Sao Joaquin da Barra, si chiama la Fazenda dos Picchioni, anche se loro non ne sono piu’ i proprietari. All’epoca aveva tutto, anche un magazzino, la chiesa e la scuola per i figli degli impiegati. Era stata la seconda disfatta dei Junqueira, antichi “quatrocentoes” ai quali si deve la creazione del cavallo ”mangalarga”, che avevano gia’ sofferto il “Levante da Bella Cruz”, il 13 maggio del 1833, con l’uccisione di quasi tutta la famiglia, dal nonno ad un neonato di cinque mesi, ad opera degli schiavi negri che si erano ribellati ai soprusi dei ”capitaes do mato”.
”Mio zio, Luigi, ebbe quasi subito l’idea di mettere su una casa di commercio chiamata Fratelli Picchioni. Erano gli anni del riscatto degli immigrati italiani dai pesanti inizi in cui erano stati utilizzati come sostituti degli schiavi, liberati nel 1888. Mio nonno si mise molto a pensare e intui’ che gli italiani si stavano arricchendo dopo la crisi del 1929 e che avevano sempre piu’ bisogno di soldi per organizzare i raccolti e per investire nelle loro terre. Nacque cosi’ dal nulla una nuova banca, la “Casa Bancaria Fratelli Picchioni”. Prestavano molti soldi agli immigrati italiani nella zona di Ribeirao Preto, e dopo andarono anche a San Paolo dove gli italiani erano la maggioranza. Gli affari andavano a gonfie vele, mio nonno monto’ anche una fabbrica di cappelli e altre cose. Sembrava che tutte le sofferenze fossero ormai relegate nel passato. Ma non era cosi’! ”. Scoppio’ la seconda guerra mondiale e tutto cio’ che era italiano venne perseguitato dalla legge di Getulio Vargas che espropriava i beni degli appartenenti all’Asse (Italia-Germania-Giappone) e proibiva di parlare la lingua di origine. “Arrivo’ l’esercito con le armi e prese la banca e tutto quello che avevano. Una disperazione! Il Palestra Italia di San Paolo dovette in quegli anni cambiare il nome in Palmeiras. Cosi’ qui a Belo Horizonte il Palestra Italia locale cambio’ in Cruzeiro, e l’ospedale degli italiani Felice Rossi muto’ per Felicio Roxo. Ma mio padre, che e’ il mio idolo indiscusso, promise che avrebbe raggiunto di nuovo quella posizione sociale dalla quale era stato cacciato ingiustamente e in malo modo. L’unico italiano che si mantenne un po’ fuori da quei soprusi fu il Conte Francesco Matarazzo. Grazie a lui papa’ riusci’, malgrado fosse nato nella penisola, ad andare a lavorare alla banca Moreira Salles. Si specializzo’ nell’area di cambio e di investimento, un addestramento che doveva venirgli infinitamente utile negli anni a venire. In quell’istituto di San Paolo imparo’ molto e si educo’ finanziariamente”.
Ma come avvenne lo spostamento della famiglia Picchioni a Belo Horizonte? “Un giorno mio padre venne a BH per riscuotere un debito. Aveva la capacita’ di vedere piu’ in alto degli altri. Belo Horizonte era stata fondata da relativamente poco e stava crescendo. Allora decise di trasferirsi in questa citta’ perche’ indovino’ che il suo business poteva svilupparsi a dismisura, e senza la concorrenza che soffriva a San Paolo. Fu una percezione sensazionale che rivela le sue immense doti di perspicacia e acutezza. Era la fine della guerra: il 1945. Con la morte di Mussolini finirono le sanzioni contro gli italiani. A Belo Horizonte apri’ una casa di cambio. Aveva un negozio per strada, con banconote e monete in vetrina che nessuno si sognava di rubare. Pian piano entro’ nell’area della borsa valori, dei fondi pubblici e di disbrigo delle pratiche doganali. Incomincio’ a crescere e non si e’ mai arrestato”. In quegli anni nacquero i suoi quattro figli maschi e le due femmine. Celso Picchioni e’ il terzo, e venne alla luce il 22 gennaio del 1958. Divenne adulto proprio in concomitanza con l’arrivo della Fiat a Betim. Si era formato a San Paolo e appena ventunenne si sposo’ con una napoletana della Mooca, il quartiere tutto italiano degli operai delle fabbriche Matarazzo. Poi tornarono assieme a Belo Horizonte. “Con la Fiat si e’ vissuta una vera rivoluzione in tutta Minas Gerais. Facevamo la logistica di tutte le macchine, i motori, la componentistica, che venivano importati dalla casa automobilistica torinese. Basandoci sull’agenzia di cambio, abbiamo incominciato quasi subito a comprare direttamente per il cliente all’estero. Abbiamo aperto uffici ad Amburgo e a New York. Acquistavamo quello che la Fiat voleva, chiudevamo il cambio, imbarcavamo la merce e la consegnavamo alla porta. Gli italiani arrivati con Fiat hanno portato il progresso. Attualmente esiste un nostro ufficio di cambio in ogni shopping di Belo Horizonte, e anticipiamo il futuro con un site dove e’ possibile comprare azioni on line. Nell’area del turismo siamo diventati rappresentanti dell’American Airlines che ha voli da Confins per gli Stati Uniti. E’ inutile: da quando sono arrivati dall’Italia, i Picchioni sono sempre stati all’avanguardia per poter crescere. Ma sempre ricordando le loro umili origini”. Suo padre, Ettore/Heitor, si e’ tolto lo sfizio di comprare pure una miniera di argento e di marmo a Januaria, lungo il Rio Sao Francisco, nel nord di Minas.
“Sono andato la prima volta a Stipes da piccolo con mio padre. Mi ricordo che avevano messo un gran tavolo in mezzo alla strada e tutti arrivavano con pane, salame, vino, tartufi e carne di cinghiale. I compaesani raccontavano storie e mio padre rideva come un matto e anche piangeva. Era felice, all’ombra della chiesa dove i due Ettori, il nonno e il papa’, erano stati battezzati.” Negli ultimi anni della sua vita (Ettore Picchioni e’ morto nel 2004) volle coronare la sua esistenza con qualcosa che unisse di piu’ Minas Gerais all’Italia. “Sedeva nella sala e mi diceva: figlio, vedo che gli italiani e gli oriundi sono molto spenti in questa regione. I vecchi forse sentono addosso i residui della guerra, e i giovani perdono sempre piu’ la loro italica cultura. Minas e’ un posto di montagne, dove la gente e’ diffidente. Vuol dire che fanno anche la testa degli italiani, che non escono piu’ dalla tana? Eppure la storia dimostra che gli italiani sono un popolo guerriero, che lotta sempre. Allora abbiamo fondato nel 2002 l'”Acibra”, l’Associazione Culturale Italo-Brasiliana di Belo Horizonte. Quando l’abbiamo inaugurata, un italiano ci aveva prestato un auditorio che sembrava troppo grande per l’occasione. Ancora adesso mi vengono i brividi a ripensarci: la gente italiana veniva a fiotti, da ogni lato, e il teatro straripava. Ricordo che mio padre, sorridendo, mi ha confidato sottovoce: l’onore e’ a posto!”. La maggior festa di strada di Belo Horizonte e’ oggi l’italiana con la partecipazione di 60 mila persone nella centrale Avenida Getulio Vargas, nel quartiere Savassi, in cui il traffico viene interrotto il sabato prima o dopo il 2 giugno, festa della repubblica italiana.
“I miei 3 figli e i 25 nipotini hanno l’obbligo di parlare italiano. E tutti sono stati a Stipes. La storia deve essere letteralmente ripetuta a tutte le generazioni, non importa se alla terza o alla quarta”. Celso non si ricorda quando suo padre e’ morto. Non lo vuol ricordare, perche’ dice che il suo genitore e’ sempre vivo e sta accanto a lui. Pero’ si rammenta benissimo di aver portato le sue ceneri a Stipes. “Lui voleva ritornare la’ da dove era partito. Il paesaggio e’ molto cambiato da quell’epoca, con il bel lago del Turano sullo sfondo, creato da una diga nel 1939. Alla domenica arriva molta gente da Roma, in moto, a mangiare al ristorante Tartufo, di mia cugina Antonietta Picchioni. Adesso per il Natale di Roma (21 aprile) facciamo qui a Belo Horizonte, all’Acibra, una cena identica a quella che si potrebbe mangiare nella sua osteria di Stipes: bruschetta di pomodori tritati con erbe, bruschetta di basilico, salamino italiano, scaglie di parmigiano con origano e olio extravergine, fettuccine all’amatriciana, spaghetti alla carbonara, salame di cioccolato e tiramisu’. Non so se Stipes vuol proprio dire in latino un sacco di monete d’oro o il palo della tortura, o se ha invece il significato che mi hanno detto i miei compaesani del ‘primo ad arrivare’. Tutte e tre le accezioni hanno a che vedere con la famiglia Picchioni, che ha sofferto per arrivare prima di tutti a costruire una delle case di cambio piu’ rispettate del Brasile. E per la quale il lemma italiano, ‘onore, lavoro e dignita”, sta scritto a ferro e fuoco sulla pelle di tutti i suoi appartenenti”.