05.10.2016

Marina Colasanti

Rio de Janeiro (RJ) 04/10/2016


Marina Colasanti e’ una scrittrice affermata, vincitrice di numerosi premi, come il Jabuti’. E’ un’esperta giornalista e una appassionata artista, non solo perché formata in Belle Arti. E’ stata persino pubblicitaria, e negli anni della sua prima giovinezza (la seconda dura ancora adesso che si appresta a compiere 80 anni) coraggiosa subacquea e ben più coraggiosa ragazza madre. Ma, cosa che ci interessa ancora maggiormente, e’ un crocicchio di vite vissute, memoria vivente di molti personaggi famosi che ora non ci sono più. E il suo racconto spazia da zia Gabriella Besanzoni, che prima della Seconda Guerra Mondiale e’ stata la migliore contralto del mondo, indimenticabile nella Carmen di Bizet, allo zio Henrique Lage, grande industriale brasiliano, ideatore di quella ”villa italiana” nel Parque Lage di Rio che divenne la dimora di Marina. Dal bellissimo fratello Arduino, pioniere dei surfisti delle spiagge carioca, sex symbol in una quarantina di film del “Cinema Novo”, che si sposo’ cinque volte e ebbe un’infinita’ di casi, uno anche con Sonia Braga, al padre Manfredo, “amante delle guerre”, che divenne, da anziano, attore della Globo e della Bandeirantes. Che belle vite hanno avuto i parenti dell’autrice di “Passageira em Transito”! Quasi come la sua, sempre agitata fattivamente ed instancabile in giro per il pianeta, nonostante abbia il più pacifico dei mariti nel poeta Affonso Romano de Sant’Anna.

“Non sono mai riuscita a tornare all’Asmara dove sono nata – Marina riceve i ”100 Nonni” nel suo splendido attico di Rua Nascimento Silva, ad Ipanema, la stessa dove ha abitato, al numero 107, un giovane Tom Jobim – Ho scritto un libro di memorie dei primi dieci anni della mia vita perché mi interessava parlare della guerra vista dal di dentro. E allora desideravo andare in Eritrea, ma non c’e’ nessuna rappresentanza diplomatica in Brasile. Mi dissero che dovevo spedire per posta il passaporto a Washington, ma era un rischio grosso che non potevo correre”. Marina e’ nata in quella che era allora la capitale della colonia africana dell’Italia fascista, il 26 settembre 1937. La’ visse solo un anno e pochi mesi, trasferendosi subito a Tripoli di Libia, altra colonia dell’effimero “Impero” italiano. In Libia ha vissuto fino alla dichiarazione di guerra del 1940. “Fuggimmo in Italia con mamma Elisa, ma mio padre Manfredo volle rimanere. Ultimamente, dopo l’epoca di Gheddafi, sarebbe stato possibile anche andare a Tripoli per concludere il mio libro, ma mi hanno detto che soltanto lungo un percorso autorizzato. Ed io non sono un tipo adatto a queste limitazioni. Sono della Bilancia: i freni non mi stanno bene! E così non sono tornata neppure li'”. 

Il papa’ di Marina era figlio di Arduino Colasanti (senior), direttore generale delle Belle Arti e grande critico d’arte ai tempi di Mussolini. Manfredo lavorava in Confindustria (la federazione degli industriali italiani). “Adorava la guerra. Era un irredentista. A 16 anni scappo’ di casa per andare a Fiume con Gabriele D’Annunzio che nel 1919 occupo’ quella enclave serba a maggioranza italiana. Ho delle lettere che parlano di lui, scritte dal ‘Vate’, dallo scrittore de ”Il Piacere”, indirizzate a mio nonno. Poi fu volontario nelle spedizioni di conquista in Africa. Si e’ contagiato decisamente col ”mal d’Africa”: gli piaceva immensamente quel continente. Andò a combattere per ben due volte, e la seconda, visto che non c’era più posto per gli ufficiali, si degrado’ a soldato semplice: l’importante era  partire per l’Etiopia. Quando dovette abbandonare la Libia durante la guerra fu una disfatta disastrosa per lui. In Italia non restavamo un anno fermi in un luogo. Andavamo sempre più a nord, seguendo la Repubblica fascista di Salo’, che indietreggiava con gli Alleati che avanzavano lungo la penisola. Il 25 aprile del 1945, ultimo giorno della guerra, eravamo quasi in Svizzera, ad Albavilla, vicino a Como. Avevo sette anni, non avevo amici, ne’ bambole, ne’ giocattoli. Scappavamo sempre da un posto all’altro. Erano tempi durissimi: si portava via il brillante della mamma cucito all’interno della gonna”.

Suo padre sostituì, nel suo amore per l’esotico, l’Africa col Brasile. Nella terra del samba c’era già stato due volte. La lunga, affascinante storia, risale agli anni ’20 del secolo scorso quando Gabriella Besanzoni, zia di Manfredo, grandissima cantante lirica, faceva la rotta dell’America del Sud con il gruppo di Enrico Caruso. Dal Colon di Buenos Aires si spostavano al Solis di Montevideo, a San Paolo, a Rio, a Belem, e salivano fino a Città del Messico. Durante una di queste tournée, un armatore brasiliano, un uomo raffinatissimo che aveva studiato in Inghilterra, appassionato di musica, si innamoro’ perdutamente di lei e le chiese di sposarlo. Era Henrique Lage, che, partendo dalla flotta della Compagnia Costeira, costruì un impero industriale che comprendeva le più svariate attività, da avveniristici porti in Santa Catarina alle prime fabbricazioni aeronautiche brasiliane. Era dovuto tornare in fretta e furia da Londra ad assumere gli affari di famiglia: suo padre era mancato improvvisamente e così due fratelli, morti di spagnola nello stesso giorno. “Gabriella gli disse di no perché era sulla cresta dell’onda e voleva continuare a cantare. Ma lui, ad ogni viaggio della compagnia lirica, le riproponeva il matrimonio. Alla terza volta lei penso’ che forse si stava sbagliando di grosso a dire sempre di no, e così si sposarono. Era il 1925. Per le nozze vennero in Brasile mio nonno con la nonna e i due figli: Arduino era il fratello favorito di Gabriella che gli chiese di fare anche da padrino alla cerimonia. Poi mio padre torno’ una seconda volta in Brasile per stare un anno con la zia in questa città meravigliosa, che in quel periodo era ben più piacevole di adesso”. Erano gli anni ’30. La famiglia Lage viveva su quattro o cinque isole della Baia di Guanabara. Le principali erano l’Isola Viana sulla quale costruivano le navi, e l’Isola di Santa Cruz, dove abitavano. Oggi sono al termine del ponte che taglia in due la baia, quasi sulla costa di Niteroi. C’era una bellissima villa e dietro una schiera di comodi “cottages” che i Lage avevano costruito per i comandanti che provenivano per lo più dall’Irlanda: ottimi marinai. Erano Primi Ufficiali dei famosi Ita (si chiamavano tutti Itarare’, Itanhanga’…: da Ita, pietra in lingua Tupi’), navi di medio tonnellaggio che facevano cabotaggio di passeggeri e merci dal nordest e dal sud del paese fino alla capitale. Erano tanto popolari che esiste persino una celebre canzone: “Peguei um Ita no norte e vim pra o Rio morar…”. 

“Così, finita la guerra, mio padre decise che saremmo andati in Brasile – Marina mostra ai 100 Nonni numerose foto scattate in quegli anni – Andò da solo, in avanscoperta, con una nave da Genova. Noi lo seguimmo due anni dopo con un Constellation della Panair do Brasil. Partimmo da Roma Ciampino, che era ancora un aeroporto militare, con la pista non asfaltata ma con quelle placche di alluminio cementato con cui gli americani facevano in quattro e quattr’otto gli aeroporti in tempo di guerra. Arrivammo a Rio dopo un viaggio interminabile e andammo a vivere nel Parque Lage. Era il maggio del 1948”. Quella villa di stile italiano, “fasullo, confuso, ma italianissimo”, di fianco al Jardim Botanico di Rio, con al centro una favolosa piscina, e circondata da un’esuberante Mata Atlantica verso le prime rocce del Corcovado la’ in cima, e’ stato un regalo di Henrique alla sua amata Gabriella. Lei non cantava più, ma, d’accordo con il marito, fece del Parque Lage la più straordinaria scuola di canto dell’America Latina. Ideo’ un gruppo che si chiamava “Opera Brasil” che avrebbe portato il bel canto verso il nord e verso il sud del Brasile con l’appoggio della Compagnia Costeira. Si mise a fabbricare dal nulla cantanti lirici brasiliani, scovando talenti in ogni parte del paese, offrendo borse di studio, e facendo preparare da mangiare per tutti in un ristorante allestito sotto casa. Aveva a disposizione tre o quattro pianoforti a coda. Era estremamente felice! “Ma come sempre, la gioia ha le gambe corte. Zio Enrico, come lo chiamavamo quando veniva in Italia con Gabriella, si ammalo’ di erisipela, a quel tempo malattia micidiale, e di cuore. Mori’ a sessant’anni all’inizio della Seconda Guerra Mondiale. Il sogno fini'”. 

Quando Manfredo arrivo’ in Brasile nel 1946 andò a lavorare in una ditta di costruzioni che aveva lasciato Henrique Lage. Presto fecero trasloco dal Parque Lage in un appartamento di Leblon. “In quel tempo il rione di Leblon era pieno di terreni vuoti, fra edifici sparsi, di tre o quattro piani. A lato di casa c’era un grande prato dove andavo a raccogliere margherite per la mamma. Mio padre ci prendeva al mattino presto con la sua vecchia Ford nera e ci portava all’Arpoador. Per noi abituati alle spiagge di ciottoli del Mar Tirreno era incredibile calpestare quel talco di sabbia. Restavamo a bocca aperta”. Gabriella fece, con la madre di Marina, uno strano viaggio a New York, di addirittura un anno, con la scusa di andare a controllare i soldi delle sue incisioni discografiche. In realtà le cose fra Manfredo ed Elisa non andavano più bene. Nel 1951 si separarono, ed Elisa torno’ in Italia con Marina, mentre Arduino restava con il papa’ in Brasile. “Avevo 14 anni. Tutto prese un andazzo tragico. La famiglia di mia madre, i Del Bono di Parma, si era letteralmente sfaldata. La nonna era morta per l’influenza spagnola che fece fuori nel mondo oltre 50 milioni di persone, il nonno manco’ anche prima, e le sue due sorelle le uccise un tumore. Non c’era rimasto nessuno. In più anche la mamma si ammalo’ di cancro e decise di tornare in Brasile. Non aveva neppure 40 anni. Mori’ nel 1953 malgrado diverse operazioni rivoluzionarie negli Stati Uniti che non servirono a nulla”. Gabriella Besanzoni si risposo’ con Michele Lillo, un ufficiale della finanza, e torno’ in Italia. Vendette tutto ciò che aveva ereditato da Henrique Lage in Brasile. Ed era molto!

Come liquidazione il padre di Marina ricevette un grande podere ad Angra dos Reis. Si chiamava Pedra Branca e apparteneva a un grande complesso di tenute dei Lage di nome Ariro’. Fare il “fazendeiro” non era il suo forte, ma si impegnava, e non restava quasi mai a Rio con i suoi due ragazzi. “Io e Arduino stavamo di nuovo al Parque Lage. Ma la villa era vuota. Era strano vivere la’ da soli, con una coppia di gente di servizio, in quella gigantesca magione. Mio fratello era stato respinto a un esame di ammissione all’Università e studiava in un corso di notte. Avevo molta paura. Mio padre mi regalo’ una rivoltella. Sono rimasta li’ fino ai 19 anni mentre facevo l’Università di Belle Arti. Poi zia Gabriella vendette la villa a Roberto Marinho, che era già guru della Tv Globo. La Besanzoni mori’ a Roma, di cuore, nel 1962. Noi andammo a vivere a Ipanema. Arduino incomincio’ a fare surf con delle grandi tavole di legno. Ma poi si industrio’, e passando per il polistirolo espanso, arrivo’ a realizzare le prime tavole brasiliane di vetro resina. E’ morto nel febbraio di due anni fa, ma era bello da morire. Fece molto successo con i film che girava perché a quel tempo in Brasile non c’erano biondi: aveva il fascino del raro. Mi porto’ a fare pesca subacquea in apnea. Morivo di spavento e di freddo, ma ero orgogliosa di essere probabilmente l’unica donna sub del Brasile”. Una volta che Arduino era impegnato sul set di un film ad Angra dos Reis, presento’ suo padre Manfredo al regista Nelson Pereira dos Santos. Si piacquero molto e così, a 65 anni suonati, la sua vita fece una svolta: inizio’ la carriera di attore, recitando subito nella fazenda il film “Fome de amor”, e partecipando poi a una ventina di film e telenovelas della Tv Globo e della Bandeirantes. “Aveva fatto molti debiti. Gli ripetevo di non vendere la fazenda prima che arrivasse la strada, che poi valeva il doppio. Parole inutili. Ha buttato via tutto, eredita’, quadri, tappeti, gioielli, … ma e’ vissuto magnificamente”. Mori’ a Rio nel 1983: nel sonno. Aveva 82 anni.

Marina inizio’ la sua carriera artistica facendo incisioni su metallo. Ma non vendeva quasi niente, e dipendere dal padre anche per un paio di scarpe non le andava bene. Voleva essere indipendente, e incomincio’ a cercare lavoro. Degli amici giornalisti, il grande Millor Fernandes e Yllen Kerr (leggenda del surf, sebbene non abbia mai surfato: primo presidente della Federazione Carioca di Surf), la portarono un giorno al Jornal do Brasil. “Scrivevo bene perché avevo letto molto. Quando in tempo di guerra stavamo a Como i nostri genitori andarono in libreria a comprarci la collezione “Scala d’Oro” dell’UTET. Era in otto fasi dai 6 ai 13 anni. Si sbagliarono e comprarono quella di 13: io non avevo neppure 7 anni. Lodato sia il Signore per quell’errore. E’ arrivato nella mia testa uno tsunami letterario che di sicuro ha cambiato la mia vita. Leggevamo Edgar Allan Poe, Miguel Cervantes, Alexandre Dumas, Leone Tolstoy, Victor Hugo, l’Iliade, l’Odissea… Eravamo intimi di Ulisse. La letteratura universale c’e’ cascata addosso. Un’emozione che non si e’ mai più ripetuta con tanta intensità. Non conoscevamo nessuno, e tutto il giorno restavamo attaccati ai libri. Non avevamo altro da fare. Quando ci stancavamo di leggere giocavamo ad inventare storie sulla falsariga di Emilio Salgari. Eravamo pirati, indiani….Ho anche un nome da squaw: ero Sole Ridente”. Manfredo continuo’ anche a Rio a comprarle libri in francese, alla Maison de France o alla libreria del Copacabana Palace. “Tutto questo fu molto utile per entrare al giornale. Era il 1962. Ho cominciato come reporter, ma dopo due mesi mi hanno messo in redazione perché avevo un ottimo scritto. Iniziai al Quaderno B, la  pagina culturale: il posto più ambito del JB – Marina se la ride delle sue prime esperienze nel giornalismo – Capo redattore era Claudio Mello Souza. C’era una pila di riviste italiane, Epoca, L’Europeo, accatastate in un angolo. Mi disse: già che parli italiano ci sono articoli molto interessanti di una certa Oriana Fallaci. Riscrivili in portoghese, riducili, che li pubblichiamo. Questo non si può fare nel giornalismo. E’ completamente anti-etico. Ma io non lo sapevo, e per mesi sono andata avanti a scrivere pezzi bellissimi, che non erano miei ma della Fallaci”. Andava tutto a gonfie vele ma improvvisamente avvenne il golpe militare del ’64. “Quel giorno andai al giornale per difenderlo, con in borsa la Beretta 22 che mi aveva dato mio padre: atto spavaldo e giovanile! Entrarono le truppe, ma la padrona del JB, la contessa Pereira Carneiro, incantevole, grassottella, sempre con collane di perle al collo, scese in redazione e disse che potevamo tornarcene a casa tranquilli: il giornale non avrebbe chiuso! Erano tempi in cui ci voleva tanto coraggio. Molta gente ci lasciava la pelle. Avevo ricevuto in eredita’ una parte dei favolosi gioielli di zia Gabriella. Decisi che sarebbero serviti ad un proposito maggiore: un figlio da amare che abitasse la mia vita. E smisi di proteggermi. Con un gesto serissimo e maturo, ho risolto di essere ragazza madre. I colleghi del giornale mi furono molto vicini. Non era facile! Ma così, nel 1965, e’ nata Fabiana. Il mio primo libro fu pubblicato due anni dopo. Ha un titolo rivelatore: ‘Eu sozinha’ (Io da sola)”.

Nella deliziosa casa di Avenida Rio Branco, che fungeva da sede del JB, conobbe Affonso Romano de Sant’Anna, un poeta, professore di letteratura che era sempre stato giornalista. Era amico di Fernando Gabeira. Erano della stessa città, Juiz de Fora, ed era riuscito a farlo entrare al giornale come capo del dipartimento di ricerca. “Quando Affonso torno’ da un anno di borsa di studio negli Usa, ci mettemmo a chiacchierare se dovevamo andare a trovare o no Gabeira, che era in prigione per il rapimento dell’ambasciatore statunitense Charles Elbrick. Chiacchieriamo ancora adesso. Ci siamo sposati nel 1971. Abbiamo assieme un’altra figlia che si chiama Alessandra”. Nel JB incomincio’ ad occuparsi di letteratura per bambini. “Ana Arruda Callado, che fu in seguito la prima brasiliana a dirigere la redazione di un giornale, curava il Quaderno I dedicato ai piccoli. Fu arrestata perché faceva parte della resistenza e mi chiese di sostituirla in attesa di ritornare. Io mantenevo il mio lavoro al Quaderno B, e non volevo cambiare nulla perché al suo ritorno trovasse tutto come aveva lasciato. Mi misi pertanto a riscrivere una favola famosa per riempire la rubrica. Sono rimasta di stucco quando ho visto davanti a me una ‘Bella Addormentata’ cambiata totalmente, completamente diversa, ma incantevole come quella originale. Ho impiegato cinque anni perché il mio primo libro di favole fosse pubblicato. Pero’ poi ha preso una caterva di premi”. Nel 1973 Marina passo’ all’Editora Abril di Victor Civita e vi resto’ 18 anni come redattrice di “behavior” nella rivista Nova, lavorando contemporaneamente, per 8 anni, come creativa in un agenzia di pubblicità. “Erano gli anni del femminismo e bisognava stare molto attenti a quello che si scriveva. Ho messo su una piccola biblioteca sull’argomento e da quel lavoro ho estratto quattro libri, più un saggio sull’amore. Ho un totale di 58 libri pubblicati oggi”. 

Marina Colasanti ha conosciuto molto bene Clarice Lispector, sulla quale ha scritto un libro in tandem col marito, e Carlos Drummond de Andrade, “un uomo riservato, con un’anima molto abbottonata”. Al Parque Lage, se può, evita di andarci: marmi venuti dall’Italia sono stati spaccati, hanno rubato il lavandino della suite di sua zia che era magnifico, tutto di marmo rosso. Sono spariti armadi di legno intagliato che fungevano da guardaroba. “Mi manca molto l’Italia, anche se mi sento brasiliana in molte cose. Sono, prima di tutto, una scrittrice brasiliana. Peccato che, nonostante il Brasile sia un paese molto italiano, non interessi granché all’Italia. Di mio hanno tradotto una fiaba, rivista da Luciana Stegagno Picchio ed edita da Mondadori. Mi vanto di aver tradotto in portoghese molte opere italiane, Moravia, il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, Pinocchio del Collodi…Purtroppo ho perso per strada la cittadinanza italiana, perché per potere essere giornalista erakexdf5 obbligatorio naturalizzarsi brasiliana. Adesso la legge mi permetterebbe di riprenderla, ma il mio certificato di nascita all’Asmara e’ introvabile. Ho il mio primo passaporto italiano: ma dicono che non basti. Per l’Italia sono quasi un fantasma: sarà che posso recuperare la mia cittadinanza col nome di Sole Ridente?”.