17.02.2017

Suor Alberta Girardi

San Paolo (SP) 14/02/2017

Suor Alberta Girardi, 96 anni suonati, e’ la bandiera del Movimento Sem Terra. Su invito di Joao Pedro Stedile ha pronunciato il discorso inaugurale del nono congresso del MST a Brasilia. Ad ”Irmã Alberta” e’ dedicato l’unico accampamento dei contadini senza terra all’interno del comune di San Paolo. Con i suoi bellissimi occhi grigi, di grande determinazione ed intensità, ha vissuto una vita incredibile, dai fuochi della Seconda Guerra Mondiale che hanno distrutto la sua casa a Venezia, ai film del “neorealismo” nella romana ”Cinecittà”, dai sacerdoti martiri dei “fazendeiros” nel Bico do Papagaio, in Amazzonia, alle notti piovose trascorse a scovare barboni e ubriachi nelle strade di San Paolo, per cercare di redimerli. “Uno e’ felice se fa’ ciò che può, di quello che gli sembra più giusto: se no non ha alcun senso vivere!”.

Alberta Girardi e’ nata a Mestre (Venezia) il 24 ottobre 1921 da Alberto, oppositore del fascismo, l’ideologia che un anno dopo decollerà definitivamente verso il potere con la “Marcia su Roma”, e da Maria Bianco, una donna semplice e molto religiosa. ”Sono venuta al mondo nel podere di Alcino, vicino a Mestre, dove mio nonno attuava come amministratore. Mio padre era l’ultimo figlio dei 18 che aveva avuto dalla nonna. Ci siamo presto trasferiti a Venezia dove papa’ lavorava nei motoscafi. Siamo andati ad abitare nel sestiere di San Polo, vicino alla chiesa di San Rocco, la Cappella Sistina del Tintoretto a Venezia”. L’amata sorella Amelia nasceva 10 anni dopo di lei. Suo padre era stato costretto ad arruolarsi, sebbene non più giovane, sia per punizione per essere anti-fascista, sia perché era una delle uniche persone specializzate in una sonda marina molto utile per i sommergibili. Erano gli anni 1942/43. Era di stanza a Trieste, ma nonostante la vicinanza non veniva mai a casa. ”Io volevo entrare in convento. Ma mio padre mi ha fatto giurare che non mi sarei fatta suora prima che lui tornasse dalla guerra, perché dovevo stare dietro a mia madre e a mia sorella. Era un patto. Effettivamente la mamma quando suonava la sirena dell’allarme aereo non capiva più nulla e scappava disperata verso il rifugio. Amelia poi era piccola, aveva poco più di 10 anni. Una notte di bombardamenti uno spezzone incendiario e’ rimbalzato al secondo piano della casa dove vivevamo, e tutto l’appartamento e’ andato in cenere. Abbiamo trascorso dei momenti terribili durante la guerra: eravamo tre donne sole”.

Poi ci fu l’armistizio dell’8 settembre 1943 quando tutti i soldati italiani si videro di colpo congedati e abbandonati a se’ stessi. Papa’ Alberto torno’ a casa e acconsenti’ che sua figlia si facesse finalmente suora. “La cosa più logica sarebbe stata che andassi dalle suore dei “Sette Santi Fondatori”, le Serve di Maria presso le quali avevo fatto la prima comunione, la cresima, ed avevo studiato il catechismo. Ma mia madre mi fece osservare: tu incomincia a lavorare che quando avrai 70 anni ce la farai ad entrare! Infatti per diventare novizia chiedevano una dote molto cara e noi eravamo poveri in canna. Allora sono andata a visitare una mia zia che era suora di Don Orione. La madre superiora del convento dove risiedeva al Lido di Venezia, che ospitava l’orfanotrofio “Cardinale Pietro La Fontaine”, mi interrogo’ molto sulle mie reali intenzioni, ed alla fine, soddisfatta, mi disse: allora vieni con noi che non chiediamo nulla. Perfetto! C’erano una cinquantina di piccoli in quel monastero e mi piaceva stare con loro. Ma ci rimasi poco. Alla fine del 1943 mi hanno mandata a Tortona, in Piemonte, lontana 450 chilometri, dove c’era un Piccolo Cottolengo di Don Orione famoso ancora oggi. Con un sacerdote che mi accompagnava per proteggermi, impiegammo un giorno e una notte interi per raggiungere la nostra meta. Il viaggio era allucinante: gli aerei mitragliavano il treno su cui procedevamo lentamente e alla fine facemmo anche una sfilza di chilometri a piedi. Pero’ ero arrivata alla mia destinazione, e, dopo otto mesi di aspirantato, sono diventata novizia. Ero molto felice. Riuscii persino a diplomarmi maestra con tre anni di studi superiori”.

Nel 1951 un colpo di scena. Suor Alberta viene mandata a Roma nel convento di Montesacro dove vi erano parecchie ragazze “orfane”, in realtà figlie di carcerati di Regina Coeli, il famoso penitenziario romano, in molti casi con il padre che scontava l’ergastolo per avere ucciso la madre. Il problema era trovare un lavoro da dare da a queste infelici. “Un padre gesuita che era anche un importante critico cinematografico, Enrico Baragli (1908-2001), mi suggerì un giorno di mettere su una scuola di addestramento professionale per il cinema, che lui mi avrebbe aiutato. Per vedere cosa si potesse fare sono andata a visitare Cinecittà assieme ad un conte, regista famoso, di cui non ricordo il nome. Mi resi subito conto che le mie ragazze potevano imparare a lavorare al trucco, alle riprese dei film, al montaggio… Nacque così il “Ciac” (Centro Italiano Addestramento Cinematografico). Un successo! Siamo arrivate ad avere due grandi moviole. Era il 1952 e sono restata a dirigere quell’istituto per ben 19 anni. Ho girato tutte le carceri d’Italia alla ricerca di figlie di carcerati da portare al Ciac”. Quel conte/regista non poteva essere che Luchino Visconti, direttore dell’indimenticabile “Gattopardo” con Burt Lancaster e Claudia Cardinale. Il ministero del lavoro finanziava il “Ciac” con parecchi soldi, che consentivano a Suor Alberta di fare mostre, come quella sui costumi nei secoli, con l’aiuto di Silvana Pierangelini Recchioni, di presentare documentari, e persino di girare un film premiato al Festival di Venezia. “Si chiamava ”I portoghesi – pranzo di nozze”, diretto da Franca Maranto Colonna. Parlava di due sposini poveri che si erano intrufolati di straforo in una ricca festa di matrimonio (da qui il nome di “portoghesi”). Riuscì molto bene. Ma in quel periodo amavo passeggiare da sola per i parchi romani e pensare a quello che avrei desiderato davvero fare. Nel 1971 mi decisi: volevo fare la suora! E chiesi di partire missionaria. Mi hanno detto di no, che era bene che aspettassi…Ma io, quando mi metto in testa qualcosa, vado fino in fondo. Lasciai il “Ciac” a una suora insegnante (che poi purtroppo non e’ riuscita a portarlo avanti) e sono partita per il Brasile. A dir il vero avrei voluto andare in Africa: a Roma avevo conosciuto un vescovo che viveva in Somalia e mi aveva detto che la’ non c’erano suore. Ma la madre superiora di Don Orione acconsenti’ che andassi missionaria solo dove c’erano già delle consorelle della congregazione. Così partii per San Paolo: era il 1971″.

La mandarono subito nella zona del Bico do Papagaio, oggi nel Tocantins, allora in Goias. Era una regione ai confini con l’Amazzonia dove lo sfruttamento delle terre e della gente da parte dei ”fazendeiros” era endemica e agevolata dall’impunita’ in quegli anni “di piombo” del governo militare brasiliano. Faceva la spola tra Araguaina, sul Rio Araguaia, e Tocantinopolis, sul Rio Tocantins. La’ conobbe un giovane sacerdote di colore, di nome Josimo Moraes Tavares. “Gli volevo tanto bene perché amava i poveri. Era un ragazzo molto intelligente, poeta, agitatore di popolo, perseguitato dalla polizia e dai latifondisti. Abbiamo lottato insieme nella Comissao Pastoral da Terra (CPT), l’organo della chiesa cattolica a favore dei contadini. Lui diceva sempre che prima o poi l’avrebbero ammazzato. Ho un appunto con le sue autentiche parole, che sono quasi un testamento: “Sono impegnato per la causa dei poveri, dei lavoratori indifesi, per il popolo oppresso nelle unghie dei latifondisti. Se sto zitto chi li difenderà? Chi combatterà a loro favore? Io per lo meno non ho niente da perdere. Non ho moglie, figli, nessun soldo. Ho solo pena di una persona: di mia madre che ha solo me! Povera e vedova. Ma voi che resterete qui vi curerete di lei. La mia vita non vale nulla in confronto alla morte di tanti padri di famiglia, semplici contadini assassinati, violentati e spogliati delle loro terre”. Venne ucciso il 10 maggio 1986. Era il “Giorno della Mamma” e la sua, Olinda, resto’ in silenzio”. Il ‘pistoleiro’ (killer di professione) Geraldo Rodrigues da Costa, un ragazzo di appena 19 anni, sparo’ contro di lui due volte, da dietro, con una rivoltella calibro 7,65, mentre saliva le scale della diocesi di Imperatriz (Maranhao) che ospitava la sede del CPT Araguaia-Tocantins. Qualche mese prima era sfuggito miracolosamente ad un altro attentato. Tre “fazendeiros” furono arrestati come mandanti. Aveva 33 anni. Sua madre e’ ancora viva.

“Anch’io sono stata minacciata di morte. Il vescovo di Tocantinopolis, monsignor Aloisio Hilario de Pinho, mi prego’ quella sera stessa di andare via dal Bico do Papagaio. Mi rifugiai a Curralinho, nell’Isola di Marajo’, alle foci del Rio delle Amazzoni. Era il regno dell’Açai (un frutto di palma) e dei gamberi di fiume, buonissimi. Sono rimasta 9 anni, ma per i primi tre ho patito molto. Ero vicario, perché non c’era parroco, e dovevo fare di tutto: difficilissimo era mettere in ordine i nomi e i cognomi, battezzare, seppellire i morti, sposare… Il primo matrimonio che ho fatto si sono divisi quasi subito!”. La’ sviluppo’ il suo lato di crocerossina. Lavorava in un piccolo ospedale e fece ben otto corsi per gestanti, per insegnare l’igiene basica, che in quella selva battuta dalla “pororoca” (l’onda di marea che avanza per centinaia di chilometri dall’oceano lungo il Rio delle Amazzoni), non esisteva assolutamente, e diffuse l’allattamento naturale. Ha un ricordo bellissimo di quel periodo, ma Suor Alberta non stava tranquilla: voleva fare di piu’! E nel 1995 passo’ dalla pace del villaggio di Curralinho all’inferno della megalopoli di San Paolo.

“Facevo parte di un gruppo, con un sacerdote e alcuni giovani seminaristi, che andavamo di notte, tre volte alla settimana, sotto ai viadotti, sulle piazze, nelle zone degradate, nei parchi, nelle favelas, per cercare gente sbandata che volesse ricostruirsi la vita. Erano barboni senza casa, ubriaconi, drogati, marginali, nei quartieri del centro, alla Se’, a Santa Cecilia, e parlavamo con loro lasciandogli alla fine dei bigliettini: se vuoi riavere un futuro vieni con noi nella terra! Lavoravamo con il Movimento Sem Terra (MST) per cercare degli adepti negli strati più miseri della popolazione. Tanti accettavano e davano il nome. Li mettevamo di fronte alle loro responsabilità : cosa speri? Sappi che quello che ti aspetta e’ tanta fatica per ottenere un terreno, e dopo tanta fatica per costruirci sopra una casa con le tue stesse mani e coltivarlo. Dopo mesi di contatti molti desistevano, ma molti altri diventavano coscienti, mettevano i documenti in regola, ottenevano la dichiarazione che non avevano precedenti penali: pronti per invadere le terre devolute, e anche quelle non! Cosa ci vuoi fare: nel sangue ho mia madre che era molto pietosa, e l’influenza sinuosa di mio padre, che era un perseguitato politico di sinistra”.

Così, a partire dal 2001, Suor Alberta ho partecipato a varie occupazioni. Il MST, organizzatissimo e molto serio, attento a non compiere passi falsi, ha tante persone qualificate che lo appoggiano. Mandano previamente ingegneri al catasto di una zona del Brasile per scoprire gli appezzamenti di terreno che si possono occupare. Allora il MST indica il podere da invadere ai capi delle azioni di occupazione che partono di notte con 20 o 30 famiglie. “Abbiamo occupato un terreno di fianco ad un penitenziario in una città satellite di San Paolo. Io col mio abito talare stavo di fronte alla polizia con un avvocato di nome Bruno. Gli altri dietro, tutti col loro fagotto, con qualcosa da bere e da mangiare. Un capitano dei gendarmi mi ha chiesto cosa ci facessi io li’. Il mio dovere, ho risposto. Il mio dovere lo faccio anch’io, ha contro risposto. Pioveva molto. Erano le due di notte. I poliziotti sono abituati ad affrontare la violenza, e allora agiscono sempre con violenza. Una mamma aveva due bambini piccoli al collo. Io ne ho preso uno, e avanti. Un poliziotto mi ha fatto cadere col bimbo in braccio. Ci respingevano fino all’asfalto e dopo andavano via. Tornavamo su subito. Era terra libera del governo, ma i secondini del penitenziario l’avevano presa per allevarci pecore e cavalli. Dicevano che era loro. Hanno chiamato di nuovo la polizia militare che ci ha respinti per la seconda volta. Allora siamo ritornati il giorno dopo con il doppio delle famiglie. Abbiamo incominciato a costruire le tende tipiche dei sem terra, con grandi sacchi di plastica nera su uno scheletro di legno, con amache dove dormire. Abbiamo resistito, ci siamo ritirati, siamo ritornati altre volte. Non abbiamo mai desistito. Alla fine siamo riusciti ad avere la residenza provvisoria. Oggi, a distanza di anni, la’ c’e’ un assestamento con 70 famiglie, 400 persone, con appezzamenti di 3-4 ettari ciascun nucleo famigliare, che abitano in case di mattoni fatte nel regime di “mutirao” (tutti ad aiutare). Coltivano acerola, cachi, avocado, lime, banana,…Quei contadini sono tutti miei fratelli”.

Al km. 27 dell’autostrada Anhanguera, che va da San Paolo a Campinas e oltre, esiste l’unico accampamento dei semi terra nel comune della Grande San Paolo. “Lo volevo chiamare Buon Ritorno ma un ragazzo ha lanciato l’idea di battezzarlo “Irma Alberta”. Tutti hanno approvato immediatamente, entusiasti. Ma gente, non sono mica ancora morta! ho risposto io. Tutti a ridere, ma non c’e’ stato verso: e così ho il mio accampamento. Il vescovo di San Paolo un giorno e’ venuto qui e ha detto che ci voleva una chiesa. Ma come una chiesa se i semi terra vivono ancora in tende di plastica? Non sono stata mai molto amante dei vertici della chiesa, come dei papi che avevo vicini quando stavo a Roma. Li rispetto, pero’ che ognuno faccia il suo lavoro. Mi spiace, ma non mi entusiasmano: Gesù Cristo e’ un’altra cosa!”. Suor Alberta vive attualmente con altre quattro consorelle nella casa “Lar Dom Orione” das Pequenas Irmas Missionarias da Caridade, nel quartiere del Bras a San Paolo, che una volta era un grande giardino d’infanzia prima che il comune lo interdisse perché doveva avere ascensori, impianti antincendio, pannelli solari,…: tutte cose troppo costose. E’ un convento piccolino di fianco all’enorme e sontuoso “Tempio di Salomone” dell’Igreja Universal do Reino de Deus di Edir Macedo, che non ha niente degli ideali di Suor Alberta.

“Il vero cristiano crede che la creazione sia fatta per tutti. Bisogna dividere perché ognuno possa avere una vita decente. E’ giusto che io abbia tutto quello di cui ho bisogno. Ma quello che e’ in più e’ per gli altri che non hanno. Lottiamo sempre con tanta fatica in questo mondo. Speriamo che si apra qualche strada: c’e’ sempre qualcuno che aiuta. I miei fratelli sem terra mi vengono a prendere ora che sono vecchia e mi portano negli accampamenti più lontani. Io cerco sempre di partecipare, se no muoio. Mia sorella mi telefona ogni giorno da Venezia, preoccupata. Sono stata poco bene qualche tempo fa e mi hanno fatto rientrare in Italia. Non mi volevano far tornare in Brasile. Ma io ho detto che col velo o senza velo sarei ritornata a San Paolo. Sono felice di stare in Brasile. Perché qui c’e’ un’altra povertà: se la conosci e la sperimenti non puoi più fare a meno di aiutarla. E poi le donne autentiche non si stancano mai. Le altre suore orionite pensano di me che sono un poco matta. Come un po’ matto era il vescovo Tomas Balduino e lo e’ il vescovo Pedro Casaldaliga. Ma in fondo si tratta di una santa pazzia!”.

Testimonianza di Tio Mauro come e’ chiamato uno dei “sem terra”, che e’ uscito fuori dall’emarginazione grazie a Suor Alberta:

“L’MST e’ Suor Alberta e Suor Alberta e’ l’MST. Tutto quello che di bene si può dire su Alberta e’ poco. Dieci anni fa era un alcolizzato. Vivevo alla porta dei bar, attorno all’arteria verso Curitiba, l’Avenida Francisco Morato, e quando andava bene vivevo nella favela di Jardim Angela, una delle peggiori di San Paolo. Una notte ero caduto ubriaco lungo quella strada. Da due anni non avevo contatti con la mia famiglia. Quel poco che sapevo del MST e’ quello che il capitale e la borghesia lasciava passare attraverso i mezzi di comunicazione. Ne avevo un’idea orribile. Quel massacro di contadini in Eldorado do Carajas era stato, secondo i media, provocato dagli stessi sem terra. Non volevo mischiarmi con quei casinisti, delinquenti, ladroni di terre…Presi il bigliettino che mi aveva dato quella notte Suor Alberta e lo passai a mio fratello. Non l’avevo neppure visto. Ma mio fratello andò a quella riunione del movimento e dopo mi ha chiesto che anch’io ci andassi. Gli ho risposto di no. Insisteva tanto che alla fine gli ho chiesto che, se ci andavo, avrebbe finito di rompermi le scatole. Rispose di si’. Ringrazio il Signore e Suor Alberta per quella riunione che mi ha cambiato la vita. Ricordo Suor Alberta e Suor Nelsy che si infrapponevano fra noi e la polizia in un’occupazione violenta nel 2003. Quelle favolose sorelle dicevano che, per respingerci, la polizia doveva prima passare in cima a loro. Eroine! Ora, grazie a lei, vivo con la mia famiglia nel villaggio delle riforma agraria dedicato a Tomas Balduino, coltivo il mio campo e ho fiducia nel futuro del miei figli. Un grazie di cuore, Suor Alberta!”