Il progetto “100 Nonni” non vuole solo intervistare degli anziani dell’immigrazione italiana in Brasile che siano famosi, che abbiano fatto qualcosa di speciale nei campi dell’arte o dell’imprenditoria, ex sportivi, studiosi, cuochi raffinati o costruttori di chiese e palazzi. Siamo andati nella Serra Gaucha del Rio Grande do Sul a parlare con un semplice “colono”, figlio e nipote di veneti come la stragrande maggioranza degli abitanti di quella terra montagnosa alle spalle di Porto Alegre. Non e’ mai stato in Italia e si ricorda poco dei racconti della sua gioventu’ su quel bel paese affascinante e misterioso dal quale erano venuti i suoi avi.
Ma Ciro Coghetto, nato il 18 dicembre del 1936, ha mantenuto intatte nel suo podere di Pinto Bandeira, alle porte di Bento Gonçalves, tutte le tradizioni italiane, dal modo in cui si tratta l’uva per fare del buon vino ai giochi della “morra” e delle bocce, dalle canzoni e dai proverbi antichi del Veneto alla produzione limitata di salumi, come il “cotechino” o la “coppa”, e di formaggi come il parmigiano. “Quando ero giovane disputavo anche tre partite di calcio in un giorno solo – racconta Ciro parlando in “talian”, il misto di dialetto veneto e lombardo con un poco di brasiliano, che e’ ormai una lingua autoctona riconosciuta e catalogata dall’Iphan – Andavo a piedi nudi da una comunita’ all’altra, anche d’inverno, con la neve. Mi piaceva molto giocare a pallone come alle bocce. C’erano sette o otto campi di bocce a Pinto Bandeira, ma adesso non c’e’ n’e’ neppure uno: e’ una vergogna. La mia specialita’ era la “bocciata secca” con la quale togli al volo la boccia avversaria piu’ vicina al pallino. Che bei tempi”.
Ciro Coghetto ripete piu’ volte che nella sua fazenda si e’ “nella casa di un colono: non c’e’ niente di lusso, il casolare e’ brutto e senza molti conforti, ma nella colonia c’e tutto”. A partire dalle vigne che rappresentano il maggiore introito della famiglia. “Quest’anno ho fatto 50 mila chili di malvasia, un’uva buona per lo champagne – dice orgoglioso quell’uomo semplice che non abbandona mai il suo grande cappello di paglia e la sua camicia scozzese – Alla vigna che produce meglio io do in premio la mia cravatta di matrimonio. E’ la cravatta che avevo quando mi sono sposato, il 26 maggio del 1959, giorno della partona di tutta questa zona, Nossa Senhora de Caravaggio. L’appendo ogni anno sul vitigno campione della produzione. E’ diventata di un colore che sembra quasi verde perche’ all’aperto prende di tutto, pioggia, sole, neve. Ma e’ ancora solida: non si sfibra mai”. Specifica che la malvasia e’ di “candier”, di Candia, la mítica citta’ dell’isola greca di Creta che molti secoli fa appareneva a Venezia.
E ci conduce fra i vitigni di uve Isabel e Bordeaux fino a una pietra incisa che e’ ai piedi di una vite antica e corpulenta, quasi un ulivo. “Mio nonno si chiamava Guerrino ed era arrivato alla fine del secolo XIX in Brasile da Treviso – ricorda – Su questa pietra c’e scolpita un’ora e una data del lontano 1890. Erano le 7 del mattino del 22 agosto di 124 anni fa quando sua moglie Colomba ha messo al mondo la sua prima figlia: Josefina. In quel giorno speciale ha voluto piantare questa pianta d’uva e scrivere su quella pietra indelebile la sua speranza per un futuro che non fosse piu’ di fame come in Italia, simbolizzato da quella prima sua creatura brasiliana”. E Ciro non riesce a trattenere le lacrime rievocando quel gesto. “Mi commuovo per la gente che non c’e’ piu’ – ammette – Non posso piu’ neppure andare a una veglia funebre. Il medico mi ha detto di starci lontano. Mi hanno gia’ safenato, ma tutte le volte che ripenso a quella bella storia del nonno e della sua vigna mi viene da piangere’’.
Per ritirarsi su gioca con suo nipote una partita alla “morra”. E’ una tradizione del nord Italia che si scandisce con pugni feroci sul tavolo e numeri gridati contemporaneamente dai due avversari. “Bisogna indovinare la somma delle dita, tra le sue e le mie”, sorride Ciro giocando appoggiato a una vecchia botte che vibra e fa da cassa di risonanza quando le manate e la “morra” si fanno piu’ concitate. “Questa botte di cedro e di alloro era stata fabbricata per prendere la prima spremitura dell’uva – si ferma Ciro fra un grido di “tuta” (tutta, ossia le dieci dita) e “ah, la morra” del nipote che lo vince sempre – Io sono nato qui (ma lui usa il gergo semi-veneto “nasesto”) e l’ho sempre vista: deve avere oltre cent’anni”.
Ciro aveva otto fratelli nati dal padre Isidoro Angelo e dalla madre Matilde Santolin. Sono ancora vivi in sei. Tutti avevano l’Italia come terra dei sogni e tutti parlano “talian” fra loro. In dialetto veneto sono scritti i numerosi proverbi che appaiono sulle pareti dei vari casolari in cui e’ divisa la fazenda. Su un quadretto si legge che ci vuole un matto per piantare la vigna, uno scienziato per elaborare il vino, un saggio per imbottigliarlo, un’amante e un poeta per berlo.
Oche, galline, faraone, una cesta di pinhão (pinoli grandi di araucaria) e una di noci pecan, un frigo di kerosene che Ciro compro’ quando si e’ sposato fa da contenitore ai barattoli di marmellata di pesca, d’uva, di pera, un gatto, limoni rosa, un motore fuoribordo per andare a pescare con una lancia che e’ la’ in fondo nel fiume, conserva di pomodori, cetrioli e peperoni, galletto con polenta con l’aggiunta di “crem”, una patata rara venuta dal tirolo che ralada assomiglia allo zenzero. Tutto questo fa parte della vita di un “colono” delle colline del Rio Grande do Sul come Ciro: “A un ramo dell’albero di mango e’ appesa a seccare l’uva bianca presa nella vendemmia a marzo. La lascio fino all’anno che viene e poi metto un altro grappolo, piu’ bello se possibile. So che in Itália c’e’ la tradizione di mangiarlo a Natale. Ma qui non si prende neppure per Capodanno: guardare ma non toccare”.
Da una stanza della casa principale esce un cane bellissimo: e’ un pointer da caccia. “Prima andavamo a cacciare qui attorno ma adesso non si puo’ piu’ – osserva Ciro accarezzando il suo cane – Ogni due o tre anni andiamo a sfogarci in Uruguay dove la caccia e’ aperta da maggio a luglio. Noi, quasi italiani, la caccia l’abbiamo nel sangue”. Ci consoliamo con un salame fantastico che io, immediatamente, chiedo di comprare. “Mi dispiace ma il salame non si vende – l’anziano agricoltore si fa improvvisamente serio – Ce ne abbiamo poco e siamo in tanti. Ho sette figli e ammazziamo un solo maiale all’anno”. Gioco forza e’ ripiegare sul vino che invece abbonda. “Vino, vinarello, tu sei nero e tu sei bello” inizia a declamare il nostro anfitrione che sorseggia la bevanda di Bacco come si faceva una volta nella colonia, con una tazza di coccio bianco ad attingere alla spina della botte, e con “il dito dentro”, la coppa senza manici. E alla fine, gia’ un po’ sbronzi, si brinda cantando a squarcia gola “El vin l’e’ bon, l’acqua fa male e il vino fa cantare: questa e’ la regola che cantano gli esteri, alzano il gomito e svuotano il biccier” come ancora si canta oggi, con qualche microscopico cambiamento, in Veneto e in Trentino.
Grazie Ciro di questo viaggio in un passato che non e’ mai morto. Grazie per la generosita’ nell’offrirci il vino e i cibi di una tradizione che non si e’ mai spenta. Grazie… “Ma aspettate un momento – si affretta a fermarci Ciro Coghetto – Ho anche l’alambicco per fare la “graspa” (grappa), proprio come in Italia. Potete provare anche quella. Sai, noi siamo coloni. Siamo poveri, ma abbiamo di tutto”.